PROFUGHI DI FOZA - VÜSCHE
Guerra Mondiale
1915-1918

Luigi Menegatti





PREFAZIONE
Foza 1919: Solo il sole e l’aria
erano ancora quelli creati da Dio...


Cristiano Contri “Trol” nella primavera del 1919 fu tra i primi a salire nella sua contrada Valcapra di Foza. Così racconta di quel che vide: “... I reticolati sbarravano la strada e poi carri, cannoni abbandonati, bombe di ogni calibro, zaini, coperte e lamiere... Imboccando la vecchia mulattiera, oltrepassata la Madonnetta, superati gli ostacoli disseminati di bombe, si presentò alla nostra vista il corpo di un soldato austriaco... Il morto teneva ancora tra le braccia il fucile e pareva fosse addormentato. Ci facemmo il segno della croce, tirammo avanti, là dove l’orizzonte si apre ampio e dà sulla Valcapra... davanti ai nostri occhi comparve all’improvviso un mondo terribile, oltre ogni umana immaginazione... Il sole e l’aria erano ancora quelli creati da Dio, ma ogni altra cosa era opera di satana. I prati sembravano bruciati, completamente stravolti, i boschi erano diventati scheletri nudi e secchi … La terra era ferita, la valle sembrava ospitasse le fermate della Via Crucis, sul colle più in alto il paese di Foza pareva rappresentare il Calvario di tutta la comunità...”.

La testimonianza, assieme alle altre che si possono leggere nel libro, venne raccolta da Luigi Menegatti con un paziente lavoro di ricerca, ancora trent’anni fa o più usando il registratore vocale e la telecamera. All’epoca molti reduci e profughi erano ancora vivi e avrebbero avuto molto da raccontare. Ma la storiografia nazionale non si degnava ancora di occuparsi del profugato, dei paesi bombardati e dei danni di guerra non rimborsati, pur potendolo fare. Cosa che invece ha fatto Menegatti, raccogliendo quantità di testimonianze e documenti riguardanti principalmente il suo amato paese, Foza.

Leggendo, ci si può fare un quadro di ciò che accadde in quelle vaste aree nazionali confinanti con l’impero Austro - Ungarico italiane o “diventate” italiane con il ridisegno dei confini nazionali seguìto nel dopoguerra. In particolare di ciò che accadde alle popolazioni profughe dei Sette Comuni in un panorama storico-geografico nel quale il popolo Settecomunigiano, i nostri compaesani, si distingueva per lingua, usi e costumi.

Lingua, usi e costumi più prossimi a quelli del “nemico” e nelle cui nazioni si andava a lavorare: a Stainach, in Stiria, piuttosto che a Salach, nel Baden-Württemberg – emigrati che nel 1914 dovettero rimpatriare – e presso i quali, magari, era ancora viva la memoria della ferma militare Austroungarica di otto anni, più due per libera scelta, con relativo premio di riconoscimento. Emigrati che al fronte potevano imbattersi in ex compagni di lavoro ora intruppati nel “nemico”.

Come non bastasse la tragedia dell’esodo, si aggiunse quella del dover convivere con gli insulti e il disprezzo di taluni degli abitanti dei paesi dove i nostri profughi dovettero rifugiarsi: insulti e disprezzo fomentati anche sulla stampa, come in quell’articolo apparso il 1° giugno 1916 sul POPOLO D’ITALIA, proprio a ridosso dell’inizio dei bombardamenti dei paesi dell’Altopiano. Certo c’erano molte eccezioni: il comportamento del clero che sosteneva l’ospitalità e l’assistenza; famiglie intellettualmente più aperte e d’animo più generoso o che lo sono diventate dopo aver conosciuto l’indole dei “nostri”; famiglie di Foza e dell’Altopiano emigrate in pianura con le quali ci si poteva ancora appellare col semplice soprannome: un vocabolo che enucleava tutta una storia di famiglie. È evidente il caso del Montello che ben si coglie nel testo. La ricerca di Menegatti non ha trascurato questo particolare, raccogliendo tra l’altro gran quantità di soprannomi che ancor oggi sono iscritti nelle nostre anagrafi comunali.




Alle ristrettezze e alle difficoltà del convivere lontani dalla terra madre, i nostri monti dell’Altopiano, si aggiunsero diaspora e allontanamento. In particolare i profughi che si trovavano tra le famiglie di parenti e compaesani del Trevigiano, dovettero subire un secondo esodo dopo la disfatta di Caporetto. I nuclei di antiche parentele vennero smembrati e, condotti su carri bestiame, furono seminati a spaglio nel Sud Italia, in condizioni climatiche – oltretutto – insalubri per la nostra gente. Così come accadde agli Eneghesi il 4 novembre 1917: ...il mattino dopo tutti gli abitanti dovevano scendere a piedi vero Primolano col solo Carico di cinque chilogrammi a persona. Fatti salire su carri bestiame, ogni vagone accoglieva venticinque bambini, sei vecchi e quindici donne; dopo undici giorni di viaggio allucinante giungevano profughi a Napoli. Ulteriormente suddivisi, quasi fossero bestie, venivano avviati ad Ariola, Benevento, Campobasso ed alcuni ricaricati sul treno, dovevano scendere ancora verso la Sicilia...

E finalmente arrivò “l’anno della vittoria” in un mese tardivo per la gente dell’Altopiano: se a novembre ancora non nevica, ci manca poco. Nella primavera del 1919 qualcuno cerca di sgattaiolare tra divieti e barriere per ritornare a vedere il paese: paese che non c’è più, rimanendo riconoscibili solo le linee d’orizzonte di colli e monti. In quel mesto tempo di pace i prigionieri dell’esercito austroungarico erano impegnati a raccogliere cadaveri e a seppellirli alla meglio: negli anni ’30 le salme troveranno pace nell’Ossario di Asiago.

La bonifica dei residuati bellici canoni, armi leggere, esplosivi e bombe di ogni genere e dimensione viene eseguita sommariamente. Sarà proseguita dai Recuperanti nei due dopoguerra, per trovare di che vivere: prezioso metallo! E di che morire: gli altopianesi deceduti a causa di incidenti provocati dallo scoppio di bombe superano il numero di 380!

Poi la ricostruzione: altre difficoltà! Il governo paga i danni di guerra con costosi (per gli aventi diritto) strumenti finanziari e non tenendo conto in modo corretto dell’inflazione, per cui una lira del 1921 certamente non valeva tanto quanto quella del 1915.

Dunque, quello dei profughi, fu un dramma in tre atti: la fuga sotto le bombe; la disgregazione della comunità paesana e la convivenza in luoghi e con gente spesso inospitale; il ritorno nei luoghi cari agli occhi e al cuore, nei quali né occhio né cuore potevano riconoscere quanto conservato nella memoria.

Luigi Menegatti, oltre a dare questo bel saggio di quel triste periodo della nostra storia, ha fatto di più: è andato nei luoghi che ospitarono molti compaesani e i suoi stessi genitori, trovando documenti e ringraziando coloro che dettero buona accoglienza: talché il Consiglio Comunale di Ficulle si riunì per ricordare quei momenti.

Sono percorsi da riprendere, e ricordi da approfondire: Per non dimenticare hanno scritto nella colonna mozza dell’Ortigara. Ne colgo il messaggio di non dimenticare proprio il dramma dei profughi del nostro passato e ora del presente.

Asiago, 17 maggio 2016
Giancarlo Bortoli





INTRODUZIONE

Durante le mie passate esperienze lavorative, che mi portavano spesso anche in Puglia, ho avuto l’opportunità di approfittare dell’occasione per interessarmi di alcune vicende circa il profugato delle nostre genti in quella Regione. A Manfredonia, dove era stato profugo di guerra e dove era stato successivamente sepolto il mio bisnonno Benedetto, deceduto nel 1918, ne ho cercato la tomba per riportare a casa quanto rimaneva di lui, ma il cimitero era stato risistemato e perciò questo non fu possibile. Invece ad Ariano Irpino ho ritrovato il Palazzo Miranda, che aveva ospitato diversi profughi di Foza, nel periodo 1917-1919. Nell’occasione sono entrato nella locale farmacia Ceccarelli che, durante l’epidemia di spagnola, si era prodigata a favore degli ospiti montanari, gravemente colpiti dalla malattia, come mi aveva riferito Giuseppina Oro, mia suocera. Ad una esterrefatta dottoressa, che non poteva conoscere quei lontani fatti, avevo portato i miei ringraziamenti per il bene fatto alla nostra gente molti anni prima, donandole una copia del mio libro “Il villaggio Brucia”, dove appunto si narra dei profughi ospitati ad Ariano Irpino. Per esaudire l’aspirazione dell’anziano Cristiano Contri, già profugo di guerra, ero anche andato a Ficulle, un ameno paese dell’Umbria. Grazie all’incontro con il Prof. Mauro Pagliacci e con la professoressa Immacolata Graziani è stato possibile ritrovare una significativa documentazione riguardante quel periodo.

Pare proprio che la nostra gente sia segnata dal destino di pellegrina, vuoi per inseguire possibilità di sopravvivenza, vuoi per sfuggire alle guerre. Secoli fa, la nostra popolazione arrivò da terre lontane per vivere nelle nostre montagne in pace, allevando pecore, producendo formaggio, lavorando il legno, fabbricando carbone, coltivando le patate.

Poi tutto questo non bastò più ed i nostri uomini avevano oltrepassato le frontiere, sempre aperte, del nord e facevano la stagione nei paesi di lingua tedesca, occupati nei lavori più disparati per portare a casa a fine anno i risparmi per il lungo inverno. Molti altri, poco dopo l’unità d’Italia, decisero di tentare di sfuggire ad una esistenza difficile, oltrepassando gli oceani per raggiungere il nuovo mondo e lì rimasero per sempre.

Il turbine della prima guerra mondiale arrivò minaccioso e poi investì il nostro piccolo mondo e lo mandò in frantumi. Terrore, pianto, malattie, miseria furono le compagne della nostra gente, raminga, lontana dalle proprie case, senza il sostegno dei propri uomini impegnati a combattere il cosiddetto nemico, che era stato il loro vicino di casa. Una vera “via Crucis”, con le stazioni del dolore e della morte. Al loro ritorno ricercarono rifugio in una baracca di legno, riutilizzando e riadattando quello che aveva lasciato la guerra: Stufe militari, attrezzature da campo, lampade, canne di fucile, baionette divenute coltelli, elmetti trasformati in scalda letto, il materiale ferroso per ricavare qualche piccolo guadagno.

I ragazzi come giocattoli avevano i bossoli dei fucili e delle mitragliatrici, che chiamavano cartucce, riconoscendo quelli di fabbricazione italiana, tedesca, francese ed inglese. Le cartucce inglesi erano chiamate Betterle ed erano le più consistenti e lucide e tenute in grande considerazione per i giochi. La balistite, che si trovava ovunque, serviva per le cariche e per produrre gli scoppi per festeggiare i matrimoni e durante la processione del venerdì santo, giovani trovavano con facilità anche armi da fuoco della prima guerra, ancora funzionanti. Negli anni ’50, quando i reduci della prima guerra mondiale si trovavano alla domenica, dopo la messa delle undici, e bevevano qualche bicchiere di vino in compagnia, nelle fumose osterie si sentivano le voci concitate dei giocatori di morra e poi i canti lenti e tristi della guerra di trincea e qualcuno di loro piangeva.




Ci furono in seguito molte altre vittime della guerra, costrette a sopravvivere bonificando il terreno ferito dalle bombe lasciate in grande quantità. I recuperanti pagarono un caro prezzo in vite umane e in corpi feriti. Fino a pochi anni fa si vedevano per strada i mutilati a causa di scoppio di granate ed ancora negli anni ’80 abbiamo avuto tremendi lutti che si sono abbattuti sul nostro paese.

Per noi la prima guerra è durata troppi anni e forse non era mai finita, congiungendosi alla seconda, aggiungendo altri lutti ancora ed orrori, nonché un’ulteriore lista di profughi, questa volta i coloni della Cirenaica. Diverse famiglie nel 1938 erano state mandate a coltivare le terre di quella regione della Libia per favorire il disegno coloniale del Regime Fascista. I profughi di Cirenaica tornarono a casa nel 1943, sotto l’incalzare delle truppe inglesi, non senza lasciare in terra libica altri morti.

Quando tra il 1975 e il 1980 ho avuto il compito di reggere le sorti dell’amministrazione comunale, ebbi l’onore di consegnare ai combattenti superstiti della prima guerra mondiale l’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto, durante una commovente cerimonia nella nostra chiesa.

Una di queste onorificenze l’ho anche consegnata personalmente in Australia a Marcello, figlio di Ettore Omizzolo “Cursor”, in occasione di un mio viaggio a Melbourne. Significativa coincidenza con un’altra medaglia alla memoria, questa volta della seconda guerra, da me portata a Wonthaggi, nello stato australiano di Victoria, a Rosa, povera mamma di Natale Gheller, suo unico figlio, trucidato sulla porta di casa nel 1945 dalle Brigate Nere. Proprio Rosa, durante le vicende della prima guerra mondiale, aveva ospitato i profughi di Foza nella sua casa del Montello.

Sono passati cento anni dai mesi più drammatici della storia del nostro paese, iniziati nel maggio del 1916. Quell’anno la nostra gente era fuggita dalle case e aveva lasciato tutto, anche la chiesa così com’era, con l’altare preparato per il fioretto di maggio. La processione quinquennale di tutto il popolo in onore della Madonna Assunta, programmata per il 20 agosto del 1916, non fu quindi possibile.

Quest’anno, celebrando le nostre 36^ Feste Quinquennali, ricorderemo anche quei tristi momenti, assieme ai mille figli di Foza dispersi in tanti paesi, che ritorneranno anche per onorare gli impegni presi dai nostri antichi padri. Simbolicamente la ricorrenza del 21 agosto 2016, tramandata alle nuove generazioni, ricorderà le figure dei “Profughi” e la salda volontà della Foza risorta dalle rovine, in un grato pensiero anche a Papa Francesco che, nell’anno del Giubileo della Misericordia, ha voluto che la nostra Chiesa fosse “Porta Santa”.

Luigi Menegatti “Sette”





INDICE

Prefazione di Giancarlo Bortoli
Introduzione dell’autore
Il Sindaco di Foza
Il Parroco di Foza
L’Altopiano dei Sette Comuni
Testimonianze
Fuga precipitosa
Diario di Giuseppina Oro “Lenza”
Si parte per il Sud Italia
Don Marco Dal Molin
Don Giovan-Battista Granzotto
Epidemia di spagnola
Fine della guerra 1915-1918
Il paese di Foza distrutto
Anno 1919, il rientro graduale dei profughi
L’inizio della ricostruzione di Foza
Presidente Unione Montana Spettabile Reggenza Sette Comuni



(PDF) LA DIFESA DEL POPOLO:

"Luigi Menegatti ha ripercorso minuziosamente
la storia del profugato della gente di Foza dopo la Strafexpedition

VIA CRUCIS IN TRE STAZIONI: LA FUGA, LA DISPERSIONE, IL RITORNO"
(Alberto Espen)