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Allora come oggi, per effettuare l'elezione, venivano svolti dei comizi che si tenevano in chiesa da parte del clero candidato, nelle prime tre domeniche che precedevano l'elezione.
Foza rinunciò al giuspatronato, con atto sottoscritto dai capifamiglia, 500 anni dopo d'averlo ottenuto: nel 1948.
Ma se questo è stato l'epilogo della vicenda attinente la proprietà della chiesa altro fu quello riguardante i boschi e i pascoli. Nel tempo, con un'evoluzione che probabilmente si completa alla fine del XVIII secolo, la gente di Foza trasforma il contratto di enfiteusi in acquisizione della piena proprietà, cosa che avverrà anche negli altri comuni dell'altopiano.
Ecco dunque che si può rispondere alla domanda sull'attuale proprietà delle montagne di quassù. Come si può capire esse non sono dello Stato, della Regione, della Provincia, della Comunità Montana e nemmeno dei comuni o dei singoli privati; la proprietà è del popolo che la esercita in forma comunista senza soluzione di continuità nel tempo. E' una tipologia di diritto reale tuttora codificata e che comprende vaste estensioni del territorio nazionale.
Ora, tali proprietà sono accatastate ai Comuni. Ma questa constatazione non contraddice quanto sopra affermato. Nel Veneto - lasciando perdere la casistica relativa al regime regoliero del bellunese - la proprietà collettiva venne intestata ai Comuni con Legge dello Stato Lombardo-Veneto nel 1806. Gli stessi oggi l'amministrano in nome e per conto della gente. E v'è da dire che la Parte del Maggior Consiglio di Venezia del 1754, con la quale si stabilì il diritto della vicinia di ciascuno dei sette Comuni, di far beneficiare di tali proprietà collettive anche i forestieri, secondo norme che le stesse vicinie avrebbero stabilito, tuttora potrebbe essere vigente non avendo trovato alcuna Legge successiva che l'abbia abolita.
Ecco così spiegato per quale ragione i singoli abitanti di Foza o degli altri Comuni dell'altopiano possono vantare diritti su queste proprietà come: andare a far legna, portare al pascolo il bestiame, raccogliere funghi e suffrutici senza pagare alcunché: ed ecco dunque la risposta ad uno dei quesiti iniziali.
Oggi si preferisce collocare questi diritti nell'ambito degli usi civili che si sostanziano nel godimento da parte dei cittadini di una data località, di un dato territorio, secondo le consuetudini che si perdono nella notte dei tempi.
Peraltro sarebbe più giusto considerare queste consuetudini esercizio del diritto di proprietà ancorpiù che uso civico.
Ciò perché, nel linguaggio corrente, si pensa che il diritto di proprietà sia dominante: più potente, più vasto. Ma la proprietà si prescrive (c'è l'istituto dell'usucapione!), si vende, magari per pagare i debiti di una notte di follia.
L'uso civico è imprescrittibile ed inalienabile: perdendosi nella notte dei tempi e nel tempo maturatosi e consolidatosi, esso sorvola la miseria della quotidianità e la pochezza dei decenni, mantenendosi integro con la generosità di chi sa guardare alle generazioni future...
Autogoverno, proprietà collettiva ed uso civico, giuspatronato: sono caratteristiche proprie della nostra gente che aiutano a meglio capire lo spirito che vi è quassù, a capire perché l'altopiano si senta corpo staccato dal resto della provincia, un'isola senza oceano.
E se il turista sconcertato potesse cogliere tutte le tradizioni, i modi di dire, i toponimi, non potrebbe capire come mai in un pezzo d'Italia si possano ancor oggi trovare embrioni di paganesimo nordico, vocaboli di un'antica lingua teutonica, attaccamento a quegli usi civici di scarso valore economico sui invece la gente tiene moltissimo. Non potrebbe capirlo se non con l'ausilio della storia; tuttora per noi maestra di vita.

              
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